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MADDALONI- Quarantacinque lettere di licenziamento. Nel silenzio più totale, anzi nella compiaciuta indifferenza, si compie un ennesimo grave atto (annunciato da tempo) dalle notevoli ricadute socio-economiche. Nuovo «stato di crisi aziendale». Cessa la sua attività l’intera filiera di produzione del cemento: dopo la chiusura dell’altoforno (gennaio 2019), alla «Maddaloni Cementi S.r.l.» si chiude pure l’attività del centro di macinazione, considerata (alle stregua di quanto è avvenuto a Spoleto) finanziariamente gravoso e soprattutto, alla luce delle nuove norme sulla transizione ecologica, insostenibile. E ora che succede? Resta aperta solo l’area vendita: il gigantesco impianto diventerà un deposito di cemento con ricadute occupazionali di appena 5 dipendenti. Per altri 40, saranno garantiti solo nove mesi di «cassa integrazione per crisi aziendale». Poi, ci sarà il salto nel buio. I sindacati sono già al lavoro. Tre opzioni sul tavolo: licenziamenti con incentivo, trasferimento in altri centri del gruppo Colacem (Arezzo, in Puglia o in Lombardia) o ricollocazione professionale tramite agenzia.

Il silenzio e l’imbarazzo…

Al cospetto di una scelta, attesa perché le attività non sono azioni produttive rinnovabili, sorprende il silenzio e anche l’indifferenza con cui il territorio vive una vicenda tutt’altro che indolore. Indipendentemente dal dibattito sul futuro delle cave e delle attività estrattive che non possono durare in eterno, sorprende la non volontà a discutere nelle opportune sedi e in sede politica. Oggi, c’è la seduta del consiglio comunale non si può più far finta che nulla sia accaduto. Se i civico consesso è il riflesso istituzionale della comunità non può e non deve sottrarsi alla sua funzione di cassa di risonanza e di luogo di confronto e di dibattito soprattutto costruttivo per la comunità. Non è più tempo di silenzi. Nessuno, ad onor del vero, ha soluzioni magiche e ricette per una situazione che a una valenza epocale. Ma al cospetto delle vicende che coinvolgono 45 famiglie ci si aspetta una presa di posizione e un chiaro attestato di solidarietà. E’ il caso di dire il minimo sindacale. Per molto meno, vedasi il caso dell’ospedale e solo su ipotetici timori di ridimensionamento, si è giustamente convocato un consiglio comunale con documenti puntuali e inequivocabili. Adesso, serve un altro atto unitario e un dibattito sulle ricadute occupazionali e i costi sociali.

Le prospettive incerte. Il 2022 sarà un anno difficile

La posizione dei sindacati (Fillea-Cgil e Filca-Cisl) è chiara, netta, collaborativa ma non supina verso le scelte aziendali. Il punto vendita non garantisce, nemmeno per gli addetti su persisti, una durata certa. Pertanto, è necessario puntare su un nuovo piano sociale e un nuovo sistema di incentivi. Primo, aumentare il numero degli addetti al futuro deposito almeno fino a dieci unità. Secondo, ampliare la platea del personale (circa dieci) che può essere accompagnato verso il pensionamento. Resta lo zoccolo duro di almeno 25 dipendenti che dovranno affrontare l’esodo occupazionale. Al momento, di dipendenti da soli sono davanti ad un bivio: possono scegliere il licenziamento volontario oppure il percorso dell’ «outplacement occupazionale», ovvero la formazione, orientamento e ricollocazione professionale del personale in esubero attraverso i servizi garantiti dall’ «Agenzia Intoo», specializzata nel reinserimento nel mondo del lavoro. Ma se entro un anno, l’avvio del trattamento di  «employability», cioè la riqualificazione dell’occupabilità della singola persona, non produrrà il rientro nel mercato del lavoro, scatteranno i licenziamenti.

Redazione