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Il calcio ha perso il suo Dio. Questo maledetto 2020 sta sgretolando come granella pezzi della nostra vita. Il più grande calciatore di ogni tempo si è spento a 60 anni dopo una vita di eccessi nel privato e di prodezze sul campo da gioco, dopo essere morto e risorto più di una volta, dopo aver compiuto dei miracoli calcistici ancora oggi irraggiungibili. Ha vinto da solo scudetti, Coppe e Campionato del Mondo e da solo ha vissuto gran parte della sua vita. Una solitudine “nascosta” dalle migliaia di persone che lo circondavano solo per godere di quei privilegi che ogni suddito del RE finisce inevitabilmente per ricavarne. “Non sarò mai un uomo comune”, è stato il titolo che ha accompagnato una vita fatta di magie, cadute, risalite, gol impossibili, champagne, cocaina, trionfi ed abissi di un ragazzo nato del povero borgo di Lanus e predestinato a diventare una divinità del pallone tanto da meritarsi libri, film, biografie, romanzi, saggi, canzoni e addirittura una Chiesa, la “Iglesia Maradoniana”, religione fondata dai suoi sostenitori nel 1998 e che vanta oltre ottocentomila seguaci. A Napoli e con la “sua” Argentina gli anni che lo consacrano per sempre a calciatore senza eredi, dopo aver debuttato tra i professionisti a 16 anni e vinto un Mondiale Juniores nel 1979 in Giappone. Nel luglio del 1984 quei palleggi in un San Paolo stracolmo oltre l’inverosimile per l’inizio di una storia d’amore resa possibile da una trattiva di mercato che potrebbe diventare una fiction. Totonno Juliano che dopo giorni di frenetici e a tratti drammatici tira e molla con il Barcellona chiama Ferlaino ed annuncia il colpo che cambia la storia del Napoli. Con il popolo azzurro è subito amore tra giocate celestiali ed amicizie pericolose. Sono gli anni del Clan Giuliano di Forcella e Dieguito non disdegna le notti a casa di don Luigino con tanto di foto nella vasca a forma di conchiglia. Nasce Diego junior, frutto di una scappatella con la bella Cristina Sinagra e la Juventus viene battuta a Torino facendo cambiare le storiche gerarchie.

Il 10 Maggio 1987 il primo storico scudetto all’ombra del Vesuvio, la poesia più bella dell’italico campionato, qualche mese prima a Città del Messico, la corona di Campione del Mondo in un torneo che vinse praticamente da solo con gol consegnati alla storia. Il tocco beffardo sul palo lontano nella sfida contro l’Italia nel girone di qualificazione, il “gol del secolo” contro l’Inghilterra scartando mezza difesa britannica, la doppietta indiavolata contro il Belgio in semifinale. Capitolo a parte per lei, la rete diventata romanzo, l’azione che ferma il tempo e consegna genio e sregolatezza di Maradona all’immortalità: “La mano di Dios”, il tocco di pugno sull’uscita del portiere inglese Peter Shilton. I 185 centimetri dell’estremo difensore britannico contro i 165 di Maradona. “Venite ad abbracciarmi altrimenti l’arbitro non convalida”, dirà Diego ai suoi compagni rimasti impietriti da quella azione che diventerà prosa cinematografica.

Quattro anni dopo “La mano di Dios”, sarà un altro Mondiale, quello del 1990 in Italia, a scrivere nuove pagine in chiaroscuro. Diego arriva da un biennio napoletano che ha trasformato in realtà i sogni più impossibili dei tifosi. La Coppa Uefa del 1989 e il secondo scudetto l’anno successivo. C’è la semifinale al San Paolo contro l’Italia di Azeglio Vicini che viaggia spedita verso la finale e quella provocazione al pubblico napoletano che viene apertamente invitato a fare il tifo per lui. I rigori maledetti fanno piangere un intero Paese che pochi giorni dopo fischierà l’inno argentino all’Olimpico prima della finale contro la Germania. Quel “Hijos de puta” immortalato dalle telecamere e il rigore dubbio assegnato ai tedeschi che alzano la Coppa, decreteranno la fine della storia d’amore tra Maradona e l’Italia. A marzo del 1991 la squalifica per doping. Tracce di cocaina nelle urine, dopo che le ventuno volte precedenti dettero esito negativo. Qualcuno aveva voltato le spalle a Diego e lui voltò le spalle all’Italia prima degli ultimi sprazzi da calciatore e il sogno diventato incubo del Mondiale americano del 1994. Ancora positivo ai controlli e l’inizio della discesa agli inferni per una vita diventata fin troppo spericolata. Lo ritroveremo nel 2008 sulla panchina dell’Argentina a litigare con arbitri e giornalista. Si qualifica in maniera rocambolesca per il Mondiale Sudafricano del 2010 ma ai quarti di finale arriva la “vendetta” della Germania e dopo lo 0-4 arriva l’esonero.  

Maradona con la Coppa Uefa vinta nel 1989

Meno di un mese fa il Mondo intero aveva celebrato i suoi 60 anni nell’ennesimo momento difficile che attanagliava una vita presa a calci troppe volte. Quell’operazione al cervello che sembrava essersi conclusa con un nuovo miracolo della medicina. Non è stato così. Diego Armando Maradona è andato via troppo presto ma forse già da tempo aveva imparato a convivere con la paura della morte. A chi ha ammirato le sue gesta l’onore di tramandare quel “Ho visto Maradona” che per sette anni ha accompagnato gli ottantamila del San Paolo. Napoli ha perso il Comandante che guidò la Rivoluzione, il calcio piange la sua massima espressione. Riportiamo queste poche righe estratte da un articolo del grande Gianni Brera per “Repubblica” del febbraio 1987, tre mesi prima dello scudetto. Il Napoli era di scena a Udine, un match importante per la corsa al tricolore. Gli azzurri vinsero 3-0 con doppietta di Diego e Brera sentenziò: “Maradona è la bestia iperbolica, nel senso infernale, anzi mitologico di Cerbero: se fai tanto di rispettarlo secondo lealtà sportiva, lui ti pianta le zanne nel coppino e ti stacca la testa facendola cadere al suolo come un frutto dal picciolo ormai fradicio”.

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Vincenzo Lombardi