00 15 min 1 anno

di Salvatore Nappo

Vorrei proporre ai lettori del GiornaleNews la storica intervista che Eugenio Scalfari, forse uno dei più grandi giornalisti italiani scomparso nel Luglio scorso, fece nel Luglio del 1981 ad Enrico Berlinguer, segretario del P.C.I., sulla questione morale; a distanza di oltre 40 anni credo che quella storica intervista sia così tremendamente dura e soprattutto attuale, è come se il tempo, stando alle cronache di queste ultime settimane, si fosse fermato a quel 1981 quando Berlinguer tuonava a Scalfari  “Se avessimo voluto venderci, se avessimo voluto integrarci nel sistema di potere imperniato sulla Dc e al quale partecipano gli altri partiti della pregiudiziale anticomunista, avremmo potuto farlo; ma la nostra risposta è stata no. E ad un certo punto ce ne siamo andati sbattendo la porta, quando abbiamo capito che rimanere, anche senza compromissioni nostre, poteva significare tener bordone alle malefatte altrui, e concorrere anche noi a far danno al paese.”….beh! adesso rileggendo, più e più volte, queste parole e assistendo, sgomenti, ai fatti di questi giorni possiamo solo dire: caro Enrico, scusaci, ma la politica italiana ha tradito gli alti ideali a cui tu ti sei sempre richiamato, scusaci perché tutta la politica italiana è stata contagiata dal denaro e dal potere per il potere, scusaci perché anche quelli che molto spesso si richiamano a te, beh! Forse quelli sono e sono stati i peggiori !!! 

Ma ti dirò di più non so se gli italiani oggi a distanza di 40 anni da quelle tue parole hanno

ancora la voglia, la passione, gli anticorpi contro il malaffare, i soldi, la corruzione, oggi è tutto dominato dal denaro, il denaro è il centro di tutto e il denaro tutto travolge….altro che questione morale, qui si tratta di un vero e proprio “sistema immorale” che non sarà mai estirpato se non con lo scuotimento delle coscienze, e con il rifiuto di credere che il denaro sia tutto, ma come si dice :  “È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”.

Chiudo dicendoti, ciao  Enrico, e scusaci ancora, l’Italia non penso che ce la farà. 

Che cos’è la questione morale 28 luglio 1981

Intervista ad Enrico Berlinguer  di Eugenio Scalfari, in «la Repubblica».

«I partiti non fanno piú politica», mi dice Enrico Berlinguer, ed ha una piega amara sulla bocca e, nella voce, come un velo di rimpianto. Mi fa una curiosa sensazione sentirgli dire questa frase. Siamo immersi nella politica fino al collo: le pagine dei giornali e della Tv grondano di titoli politici, di personaggi politici, di battaglie politiche, di slogan politici, di formule politiche, al punto che gli italiani sono stufi, hanno ormai il rigetto della politica e un vento di qualunquismo soffia robustamente dalle Alpi al Lilibeo… «No, no, non è cosí, – dice lui scuotendo la testa sconsolato. – Politica si faceva nel ’45, nel ’48 e ancora negli anni ’50 e sin verso la fine degli anni ’60. Grandi dibattiti, grandi scontri di idee e, certo, anche di interessi corposi, ma illuminati da prospettive chiare, anche se diverse, e dal proposito di assicurare il bene comune. Che passione c’era allora, quanto entusiasmo, quante rabbie sacrosante! Soprattutto c’era lo sforzo di capire la realtà del paese e di interpretarla. E tra avversari ci si stimava. De Gasperi stimava Togliatti e Nenni e, al di là delle asprezze polemiche, n’era ricambiato».

Oggi non è piú cosí?

Direi proprio di no: i partiti hanno degenerato e questa è l’origine dei malanni d’Italia.

La passione è finita? La stima reciproca è caduta?

Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società, della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i piú disparati, i piú contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, non sono piú organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un «boss» e dei «sotto-boss». La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la Dc: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e cosí via. Ma per i socialisti, piú o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora…

Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione dei partiti è il punto essenziale della crisi italiana.

È quello che io penso.

Per quale motivo?

I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai Tv, alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi c’è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il «Corriere della Sera», cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente: ma noi impediremo che un grande organo di stampa come il «Corriere» faccia una cosí brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le «operazioni» che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell’interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un’autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un’attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti.

Lei fa un quadro della realtà italiana da far accapponare la pelle.

E secondo lei non corrisponde alla situazione?

Debbo riconoscere, signor segretario, che in gran parte è un quadro realistico. Ma vorrei chiederle: se gli italiani sopportano questo stato di cose è segno che lo accettano o che non se ne accorgono. Altrimenti voi avreste conquistato la guida del paese da un pezzo. Allora delle due l’una: o gli italiani hanno, come si suol dire, la classe dirigente che si meritano, oppure preferiscono questo stato di cose degradato all’ipotesi di vedere il Partito comunista insediato al governo e ai vertici di potere. Che cosa è dunque che vi rende cosí estranei o temibili agli occhi della maggioranza degli italiani?

La domanda è complessa. Mi consentirà di risponderle ordinatamente. Anzitutto: molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne piú. Vuole una conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani dànno in occasione dei referendum e quello delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto ai referendum non comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interessi privati o di 136 iv. pensieri lunghi gruppo o di parte. È un voto assolutamente libero da questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel ’74 per il divorzio, sia, ancor di piú, nell’81 per l’aborto, gli italiani hanno fornito l’immagine di un paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al nord come al sud, nelle città come nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli operai e proletari. Nelle elezioni politiche e amministrative il quadro cambia, anche a distanza di poche settimane. Non nego che, alla lunga, gli effetti del voto referendario sulla legge 194 si potranno avvertire anche alle elezioni politiche. Ma è un processo assai piú lento, proprio per le ragioni strutturali che ho indicato prima.

C’è dunque una specie di schizofrenia nell’elettore.

Se vuole la chiami cosí. In Sicilia, per l’aborto, quasi il 70 per cento ha votato «no»: ma, poche settimane dopo, il 42 per cento ha votato Dc. Del resto, prendiamo il caso della legge sull’aborto: in quell’occasione, a parte le dichiarazioni ufficiali dei vari partiti, chi si è veramente impegnato nella battaglia e chi ha piú lavorato per il «no» sono state le donne, tutte le donne, e i comunisti. Dall’altra parte della barricata, il Movimento per la vita e certe parti della gerarchia ecclesiastica. Gli altri partiti hanno dato, sí, le loro indicazioni di voto, ma durante la campagna referendaria non li abbiamo neppure visti, a cominciare dalla Dc. E la spiegazione sta in quello che dicevo prima: sono macchine di potere che si muovono soltanto quando è in gioco il potere: seggi in comune, seggi in parlamento, governo centrale e governi locali, ministeri, sottosegretariati, assessorati, banche, enti. Se no, non si muovono. E quand’anche lo volessero, cosí come i partiti sono diventati oggi, non ne avrebbero piú la capacità.

Veniamo all’altra mia domanda, se permette, signor segretario: dovreste aver vinto da un pezzo, se le cose stanno come lei le descrive.

In un certo senso, al contrario, può apparire persino straordinario che un partito come il nostro, che va cosí decisamente contro l’andazzo corrente, conservi tanti consensi e persino li accresca. Ma io credo di sapere a che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un partito «diverso» dagli altri lei pensa che gli italiani abbiano timore di questa diversità.

Sí, è cosí, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra d’infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C’è da averne paura?

Qualcuno, sí, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi, cosí spero non ci sarà piú margine all’equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione: e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre piú larghi di Stato, sempre piú numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l’operato delle istituzioni. Ho detto che i partiti hanno degenerato, quale piú quale meno, da questa funzione costituzionale loro propria, recando cosí danni gravissimi allo Stato e a se stessi. Ebbene, il Partito comunista italiano non li ha seguiti in questa degenerazione. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le sembra che debba incutere tanta paura agli italiani?

Mi pare che incuta paura a chi ha degenerato. Ma vi si può obiettare: voi non avete avuto l’occasione di provare la vostra onestà politica, perché al potere non ci siete arrivati. Chi ci dice che, in condizioni analoghe a quelle degli altri, non vi comportereste allo stesso modo?

Lei vuol dirmi che l’occasione fa l’uomo ladro. Ma c’è un fatto sul quale l’invito a riflettere: a noi hanno fatto ponti d’oro, la Dc e gli altri partiti, perché abbandonassimo questa posizione d’intransigenza e di coerenza morale e politica. Ai tempi della maggioranza di solidarietà nazionale ci hanno scongiurato in tutti i modi di fornire i nostri uomini per banche, enti, poltrone di sottogoverno, per partecipare anche noi al banchetto. Abbiamo sempre risposto di no. Se l’occasione fa l’uomo ladro, debbo dirle che le nostre occasioni le abbiamo avute anche noi, ma ladri non siamo diventati. Se avessimo voluto venderci, se avessimo voluto integrarci nel sistema di potere imperniato sulla Dc e al quale partecipano gli altri partiti della pregiudiziale anticomunista, avremmo potuto farlo; ma la nostra risposta è stata no. E ad un certo punto ce ne siamo andati sbattendo la porta, quando abbiamo capito che rimanere, anche senza compromissioni nostre, poteva significare tener bordone alle malefatte altrui, e concorrere anche noi a far danno al paese.

Veniamo alla seconda diversità.

Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri, gli emarginati, gli svantaggiati vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata.

Onorevole Berlinguer, queste cose le dicono tutti.

Già, ma nessuno dei partiti governativi le fa. Noi comunisti abbiamo sessant’anni di storia alle spalle e abbiamo dimostrato di perseguirle e di farle sul serio. In galera con gli operai ci siamo stati noi; sui monti con i partigiani ci siamo stati noi; nelle borgate con i disoccupati ci siamo stati noi, con le donne, con il proletariato emarginato, con i giovani ci siamo stati noi; alla direzione di certi comuni, di certe regioni, amministrate con onestà, ci siamo noi.

Redazione