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Vetta inarrivabile, traduceva agevolmente dal greco al latino. Poi la vocazione francescana: tra impegni accademici e pastorali, dopo aver abbracciato la vita religiosa ed aver conseguito il Baccellierato in Teologia alla Facoltà Teologica di Napoli nel 1990, la Licenza in Teologia Dommatica nel 1992 e il Dottorato nella medesima disciplina nel 1995, era diventato docente di Antropologia Teologica e Storia della Teologia alla Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, sez. San Tommaso, di Napoli. Dirigeva anche la Biblioteca Provinciale Laurentianum

di Alfredo Omaggio– Da vecchio licealista del Giordano Bruno, ieri, ho vissuto una giornata tristissima, iniziata con una rapida ed incauta frenata automobilistica mattutina, avendo colto, con la coda dell’occhio, il manifesto funebre che annunciava la scomparsa di Pierluigi Cacciapuoti, frate cappuccino della Comunità conventuale di sant’Eframo vecchio a Napoli che così ha riportato sul sito la notizia: La nostra famiglia francescana è provata dalla visita improvvisa di Sorella morte. Padre Pierluigi Cacciapuoti è tornato alla Cassa del Padre. Sapevo che si era stabilito a Napoli, tra impegni accademici e pastorali, dopo aver abbracciato la vita religiosa ed aver conseguito il Baccellierato in Teologia alla Facoltà Teologica di Napoli nel 1990, la Licenza in Teologia Dommatica nel 1992 e il Dottorato nella medesima disciplina nel 1995. Era docente di Antropologia Teologica e Storia della Teologia alla Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, sez. San Tommaso, di Napoli. Dirigeva anche la Biblioteca Provinciale Laurentianum.

Ma per noi, licealisti della fine degli anni 70, era e resta semplicemente il genio, l’inarrivabile, il modello/eidos dello studente. Pierluigi era il nostro punto di riferimento, asintotico ovviamente; entrava al liceo con una pila di libri che sorreggeva con entrambe le mani, lasciando solo un minimo spazio dal quale si intravedeva il suo volto dolcissimo e timido. Traduceva dal greco direttamente in latino.  Alla fine dell’anno facevamo ressa sotto i tabelloni dei voti per stropicciarci gli occhi alla vista dei suoi tutti dieci (tranne in educazione fisica). Il dieci allora non era un voto, era una valutazione metafisica, per dirla con la icasticità spinoziana, come tutte le cose grandi, tam rara quam difficilia. Non ostentava il suo sapere, eravamo noi che non osavamo approfittarne, tanta era l’ammirazione che ci inibiva. Nelle occasioni solenni il preside Gebbia gli consegnava il tricolore custodito nell’istituto; fu così in occasione del corteo funebre che seguì il feretro del nostro professore di religione don Salvatore Izzo, profondo studioso delle discipline classiche. Era il 21 novembre 1976, frequentavo la quinta ginnasiale. La vocazione francescana si leggeva già allora nella seraficità del suo sguardo, nella mitezza del suo tratto. La sua giornata terrena è stata operosissima, impreziosita dalla pubblicazione di importanti studi teologici. Ha prediletto Riccardo di san Vittore, il raffinato interprete dell’amore cristiano; si è accostato al mistero del male, trattando la natura del peccato originale nella riflessione teologica che da Paolo di Tarso approda ad Agostino di Ippona; ha indagato la teologia dogmatica e quella sacramentaria, distillando una prospettiva personalistico-trinitaria che testimonia la sua inesausta passione per la condizione umana. Sit tibi terra levis!

Redazione