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(di Alfredo Omaggio) Ricorre oggi il trigesimo della scomparsa del prof. Raffaele Perrotta, docente per quasi quarant’anni di Storia e Filosofia presso il Liceo classico “Giordano Bruno” di Maddaloni. Certamente, questa breve nota non riuscirà a riparare al fragoroso silenzio che ha avvolto la sua dipartita, complice il clima di divieti funerari imposti dalla emergenza per il coronavirus, ma l’ospitalità gentilmente concessami da Maddaloni news e la autorevolezza della testata giornalistica potranno sicuramente veicolare ai molti, maddalonesi e non, che lo conobbero, innanzitutto la notizia stessa del decesso, esito repentino di un male incurabile, insieme alla condivisione di qualche spunto di riflessione che lumeggi, seppur inadeguatamente, il valore della sua personalità.

Raffaele Perrotta nacque ad Arienzo S. Felice il 15 maggio 1941; si laureò presso l’Università degli Studi di Napoli, in Filosofia, nell’anno accademico 1968-69, discutendo la tesi: “La filosofia politica di Enrico Leone”, correlatore il prof. Giuseppe Santonastaso, insigne docente di Storia delle Dottrine politiche, maddalonese di origine e maestro di un altro illustre studioso maddalonese: Bruno Iorio.

Dopo aver insegnato Lettere nella scuola media di Bellagio, in provincia di Como, vincitore di Concorso, tenne l’insegnamento di Storia e Filosofia nel nostro Liceo classico ininterrottamente dal 1971 al 2008, data del suo pensionamento.

Alla fine degli anni Settanta, il sottoscritto ebbe il bene di averlo come insegnante nel corso del triennio liceale, poi, dal 1999 al 2008, fummo “colleghi” e, a mia volta, fui anche insegnante del suo ultimo figlio Francesco.

Proprio nel 1999 fummo subito uniti nella comune opposizione che alcuni docenti, in verità pusillus grex, elevarono senza alcun risultato, contro il provvedimento di annessione del glorioso liceo al Convitto, opera di menti raffinatissime che non vale qui ricordare, ché il modo ancor m’offende.

Quando un insegnamento non si esaurisce nel trasmettere mere conoscenze, allora, a giusto titolo, lo si può intendere come magistero. E il suo, nei miei e nei confronti di centinaia di altri allievi, tale fu. Raffaele aveva una straordinaria fiducia nei giovani e negli anni questa convinzione non si è mai scalfita, anzi si è alimentata, continuando ad elargire il suo sorriso che nulla aveva della superficiale bonomia, ma che incarnava la modalità attraverso cui si esprimeva il suo essere profondamente cristiano. Un cristianesimo impegnato nel sociale e abissalmente lontano da ogni forma di integrismo, rispettosissimo delle regole e dei valori della democrazia.

Nato nel pieno della guerra da una famiglia contadina, aveva assorbito e consapevolmente distillato il patrimonio morale e ideale dei princìpi ricevuti in famiglia. L’ironia, la semplicità, l’umiltà, l’uso “colto” di espressioni gnomiche dialettali, la laboriosità concreta, il senso del dovere, la mai intermessa disponibilità a voler capire erano solo alcune delle sue doti che rampollavano da un’unica limpida sorgente: non far avvizzire le giovinezze che tanto gli stavano a cuore. È stato un uomo di cultura e nessuno meglio di lui custodiva il senso “etimologico” della parola: da quel verbo còlere che significa coltivare. In fondo, ha continuato il lavoro paterno, ha arato e trasformato giovani tagliando le erbacce della Ferinitas e facendo maturare i frutti della Humanitas, assecondando il vero e unico dettato dell’insegnamento, sfigurato oggi dalle alcinesche seduzioni delle mode culturali imperanti. Raffaele ci ha insegnato che educare è coltivare e che ciò richiede cura, attesa, pazienza, passione, presenza costante, forza e vigoria intellettuale e morale. Ci ha insegnato ad essere liberi nel pensiero, opportune et importune; era allergico ad ogni carrierismo, l’unico incarico che accettò fu quello di bibliotecario della splendida biblioteca del liceo, raccolta nella sala Dante. Prima dell’esiziale abbandono dei locali del liceo-ginnasio, con testardaggine contadina, raccolse il patrimonio librario in centinaia di scatoloni, rimasti a giacere per anni in preda al marciume del tempo e degli uomini. A me, per un debito di riconoscenza, è toccato, qualche anno fa di riaprire quella ferita, ma di dover lasciare, per così dire, l’ammalato senza cura, nella messianica attesa della realizzazione di una nuova biblioteca, semper erigenda, che possa accoglierne i volumi.

Negli ultimi anni si era dedicato a tempo pieno ai suoi amati lavori campestri, forse per chiudere il cerchio della vita, ma il suo sorriso era sparito da quando, due anni fa, la presenza e l’affetto della amatissima moglie gli erano stati sottratti dal destino.

La perdita di Raffaele non ci i rende solo più tristi, ma anche più soli e vacillanti contro la immane potenza della barbarie ritornata che si fa spazio nei tempi periclitanti che ci tocca in sorte di vivere.

Raffaele Perrotta (1941-2020)
Redazione